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I racconti di chi ha cambiato vita ✌

Zia Caterina e Milano 25: la strada verso la guarigione è colorata e condivisa

All’anagrafe Caterina Bellandi. 

Caterina-BellandiMa da tutti meglio conosciuta come la zia Caterina di Milano 25. Né un indirizzo, né l’insegna di un negozio. Milano 25 altro non è che un taxi, ma di quelli speciali. Rari perché emblema di un dolore che, vissuto ed esorcizzato,diventa un incredibile simbolo d’amore, un sentimento profondo che viaggia rapido su quattro ruote. 

La storia

 

Zia Caterina guida vestita come il personaggio di una favola. Una fata buona dal grande cappello a fiori, un folletto multicolor che travolge con la sua energia e il sorriso aperto. Una vitalità che, però, nasce da una tragedia personale.

Caterina è impiegata d'ufficio a Prato. Il compagno è tassista e la sua vettura è nota in città con la sigla “Milano 25”. Un lavoro sociale, come amava definirlo Stefano. Su un semplice sedile, si incrociano e si condividono pezzi di esistenze, anche solo per pochi chilometri.

La coppia ha una relazione serena e felice. Ma, alle volte, sembra che la vita chiami ad affrontare prove che diventano passaggi obbligatori per evolversi in testimoni di progetti più grandi. Stefano si ammala infatti di tumore ai polmoni. Prima di morire però dice alla compagna: «Sarai tu Milano 25». Coraggiosa, Caterina non esita ad accogliere le ultime volontà dell’amato, lasciando il posto in ufficio.

Cambiare vita? Il tempo di una corsa in taxi

supereroeInizialmente il taxi è una risposta per sublimare il dolore personale. Ma una bimba, un po’ per caso un po’ per destino, aiuta Caterina a trasformare il lutto individuale in iniziativa corale.
 

Nel 2002 Costanza, insieme ai genitori Barbara e Paolo, sceglie Milano 25 proprio perché attirata da quell’enorme fiore sul cruscotto. 

Il tempo di una corsa in taxi può bastare a rivoluzionare il senso delle proprie azioni? Sì.

Tipetto vivace e chiaccherino, la bambina rivela a Caterina che il fratello Tommaso è volato in cielo a causa di un tumore al cervello. I genitori, dopo il grave lutto, hanno dato vita ad un’associazione per sostenere la ricerca sul cancro infantile.

Quella storia colpisce l'autista nel profondo, toccando corde e ferite ancora vive ma, nello stesso tempo, creando nuove consapevolezze: la malattia va combattuta con la forza della solidarietà. Da quel giorno da semplice tassista Caterina diventa zia. I nipoti? Tutti i bambini malati di tumore che salgono gratuitamente sul taxi per essere portati all'ospedale pediatrico Meyer di Firenze.

 

I piccoli supereroi

supereroi milano 25Milano 25, inoltre, è una vettura magica: trasforma i piccoli passeggeri in supereroi. Grazie alla fantasiosa mano di Karin Engman, illustratrice svedese con una figlia che ha vissuto sulla propria pelle l'esperienza della malattia, i bambini acquisiscono ciascuno un particolare potere, scelto appositamente da loro.

 Così Filippo è un enorme drago verde che gioca a basket, Betty una colorata farfalla, Nino un elegante lupo con arco e frecce. Una squadra di paladini unici che lottano contro il grande mostro. Anche se, purtroppo, non tutti vincono la battaglia.

 

Una zia giramondo

zia-caterina

Eccentrica, vistosa, unica, con un sorriso per tutti, la fama di Caterina e del suo Milano 25 ha attraversato non solo l’Italia e l'Europa ma è arrivata fino in Russia, dove è stata invitata personalmente da Hunter Doherty Patch Adams, il medico-clown americano attivo da anni negli ospedali d’oltreoceano.

Caterina, instancabile, porta avanti egregiamente il compito assegnatogli dal compagno Stefano. E l'amore che dissemina è tutto lì, nero su bianco, nelle dediche che gli lasciano piccoli e grandi amici dentro l'originalissimo mezzo di trasporto pubblico. 

«Nessuno sfugge all’atmosfera complice e allegra che riesce a creare. Sembra un’amica con cui confidarsi più che una tassista alle prese con il traffico. La sua capacità di ascoltare e capire le persone, anche nei pochi minuti di corsa, lascia il segno. Sempre. Fosse anche per un sorriso, una battuta non banale, una piccola pausa intelligente e imprevedibile che ti regala una carrozza colorata che è un taxi ma non solo […] Lei, che una volta faceva la moglie e l'impiegata e che un giorno ha radicalmente cambiato la sua vita per diventare un instancabile motore di solidarietà».

irene-caltabiano

 

di Irene Caltabiano

 

 

 

 
 

 

 

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El Alto, la città dall'architettura transformer

Inarrestabile crescita

el-altoLa città più giovane di tutta la Bolivia, 4200 mt sopra al livello del mare. El Alto cresce a vista d’occhio, ai margini della vallata che racchiude La Paz. Ad oggi conta più di due milioni di abitanti, superando il numero di Sucre, la capitale.

Nell’ultimo decennio si è espansa del 160% attirando abitanti da tutti i villaggi indigeni dell’altipiano andino e, come potete immaginare, livelli di crescita del genere non lasciano molto spazio per la pianificazione urbana.

La città sta crescendo tanto in fretta da sembrare un disegno abbozzato al quale nessuno ha ancora fatto in tempo ad aggiungere i colori. Le case dai mattoni rossi mai dipinti costeggiano le strade impolverate e senza alberi che ogni giovedì e domenica ospitano il mercato più grande del paese.

La nuova borghesia Aymara

el-alto-3Da quando il Presidente Evo Morales è al governo, El Alto è diventato l’emblema dello sviluppo economico della popolazione indigena, soprattutto Aymara. Traffici di ogni tipo, leciti ed illeciti, fioriscono in ogni angolo e mostrare la propria ricchezza è diventata una nuova necessità.

Freddy Mamani Silvestre, un giovane architetto autodidatta locale è riuscito a visualizzare questo nuovo desiderio e a trasformarlo in realtà inventandosi un nuovo stile architettonico: l’architettura "transformer".

Cholet, una città ricamata

el-alto-3Mamani, prendendo liberamente spunto dai ricami tradizionali che la madre cuciva sugli scialli, ha già costruito oltre sessanta “cholet” (incrocio tra la parola chalet e cholo - ovvero  il termine che si usa in alcuni paesi dell’America Latina per identificare la popolazione indigena).

La maggior parte dei suoi edifici conta sei piani, audaci facciate composte di motivi geometrici coloratissimi e ampie vetrate a specchio. Ogni struttura è studiata individualmente per soddisfare i bisogni commerciali, familiari ed estetici degli Aymara moderni e urbani. 

 

Solitamente il piano terra è fatto di negozi e garage per le macchine dei proprietari, il secondo e il terzo piano sono sale da ballo disponibili per matrimoni ed eventi e i piani successivi sono suddivisi in appartamenti da affittare.

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La Penthouse invece è l’abitazione privata dei proprietari che si potranno godere la vista dei picchi andini comodamente seduti sui loro divani.

Non sono in pochi, soprattutto tra noi “gringos” ( parola con la quale vengono identificati gli stranieri)  a considerare il suo stile kitsch, eppure si può tranquillamente dire che Gaudí sta a Barcellona come Mamani a El Alto.

Che il suo stile architettonico piaccia o meno è indubbia la sua unicità, che certamente andrà ad influenzare i futuri decenni di architettura boliviana. 

Ma, tra la monotonia delle case incompiute e gli edifici transformers di Mamani, preferisco di gran lunga la fantasia e l’audacia del giovane architetto boliviano. 

 

 

 

 

di Darinka Montico  

Blogger, traveller e autrice di libri

 

Ecco i suoi libri:

Walkaboutitalia: l'Italia a piedi, senza soldi, raccogliendo sogni»

Mondonauta»

mondonauta L'Italia a piedi senza soldi

 

 

 

 
 

 

 

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Quelle isole che affondano sotto il peso del turismo

Non è facile dire basta alle entrate proficue che apporta il turismo. 

lago-titicacaAnzi, è talmente difficile che, a dirla tutta, non l’ho mai visto fare. Non l’ho visto fare nelle nostre belle “Maldive del Salento” a Pescoluse, dove gli ombrelloni diventano lance per guadagnarsi qualche centimetro libero di spiaggia per godersi il sole.

Non l’ho visto fare alle Canarie, luogo in cui il boom del turismo degli anni '80 ha completamente deturpato le coste. Non l’ho visto fare a fare a Bali, con le code di australiani ubriachi a piedi e in motorino che devastano le strade di Kuta. 

E purtroppo credo che anche gli Uros del lago Titikaka non si distingueranno per la loro intransigenza verso noi curiosi. Nel loro caso però, continuare ad accoglierci potrebbe letteralmente farli sprofondare.

Una popolazione misteriosa

lago-titicacaLe origini antropologiche degli Uros sono avvolte nel mistero. Pare si tratti di una popolazione di origini amazzoniche che, per  qualche ragione, sia migrata sulle sponde del lago Titicaca nel periodo pre-colombiabno. 

Oppressi dalle popolazioni locali e incapaci di trovare una terra in cui stabilirsi, iniziarono a costruire isole galleggianti con le canne di “totora”, pianta che cresce ancora naturalmente ai margini del lago. Su queste isole finalmente gli Uros trovarono la pace sviluppando un modo di vivere unico in completa simbiosi con la natura circostante.

Le loro isole, per galleggiare, devono essere  costantemente ricoperte di canne e hanno dei buchi per pescare. Se non si va d’accordo coi vicini si sposta la propria zolla da un’altra parte.

Gli Uros, grazie al loro isolamento, sono riusciti a resistere per secoli alle invasioni Inca, Collas e anche a quelle spagnole. Eppure dal 1986, quando un forte tempesta li ha costretti a spostarsi dal centro del lago alla costa limitrofa  (Puno) hanno aperto le porte a nuovi invasori armati di macchine fotografiche e portafogli gonfi.

 

Turismo INSOSTENIBILE

lago-titicaca-9La piccola comunità galleggiante di circa 1200 abitanti oggi  accoglie 200.000 turisti all’anno. 

Ignara e curiosa come la maggior parte dei visitatori, anch’io ho preso parte alla vergognosa “disneyficazione” della loro cultura e mi sento in dovere di condividere quest’articolo sperando che, grazie alla sua lettura, qualcuno di voi deciderà di saltare questa tappa in un futuro viaggio in Sud America.

L’80% della popolazione delle isole galleggianti vive di turismo. Dunque se ci si aspetta una visita per vedere “come vivono” davvero dobbiamo essere pronti ad immedesimarci alla messa in scena.

Le barche che partono ad ogni ora dal porto di Puno, scaricano i turisti su un paio di isole che vengono cambiate giornalmente in modo che tutta la comunità possa guadagnarci. 

Nel momento in cui si sbarca e si appoggiano i piedi sulle soffici canne di totoro ci si rende immediatamente conto di essere caduti in una trappola per turisti senza via d’uscita (a meno che non ci si voglia tuffare e far concorrenza alla Pellegrini).

Gli abitanti si mettono improvvisamente in moto facendo finta di fare qualcosa di vero, dal pettinarsi al costruire finte barche in totoro per coprire lo scheletro delle moderne barche a motore, mentre cercano di rifilarti orribili souvenir “made in china”.

Purtroppo l’impatto ambientale del turismo di massa sulle sponde del Titicaca e lo smaltimento delle fognature nelle sue acque sta modificando la resistenza e la lunghezza delle canne di totoro stesse che ogni anno si accorciano rendendo sempre più difficile il mantenimento delle isole.

Non credo di essere cinica nel dire che le tradizioni degli Uros siano ormai sprofondate sul fondo del lago e non credo nemmeno sia giusto che continuino a vivere così, se non ne hanno più la necessità. 

La triste verità è che i turisti lasciano le isole sentendosi presi in giro , con il risultato di sembrare patetici.

 Forse, a volte, se il passato non si riesce a convertire in presente, è meglio lasciarlo alle spalle. 

 

 

 

di Darinka Montico  

Blogger, traveller e autrice di libri

 

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