Così trasformi i tuoi primi 40 anni in una nuova primavera

Gli “anta” sono, per eccellenza, tempo di bilanci

Avere-40-anniSenso di oppressione, consapevolezza di un pezzo che manca, spasmodico bisogno di tagliare i rami secchi e ripartire, sono solo alcune delle sensazioni che possono manifestarsi in corrispondenza del compleanno fatidico. Spesso le prime, confuse, avvisaglie di insoddisfazione ed infelicità hanno fatto capolino già a 35, 36, 37 anni… forse però eravamo troppo impegnati a tagliare uno dopo l’altro tutti i traguardi ritenuti socialmente imprescindibili, per accorgercene.

…o, al contrario, eravamo intrappolati in un malessere vischioso come tela di ragno a cui avevamo finito di affezionarci, per (distorta) forza d’abitudine.

Poi, allo scoccare della cifra tonda, sembra accendersi una spia di pericolo nella nostra testa.

Sono felice?

Non ho combinato niente in tutti questi anni. Quindi non valgo niente

C’è vita dopo (e oltre) il tragitto casa – scuola dei bambini - lavoro e ritorno?

Interrogarsi di per se non è qualcosa di negativo. Anzi, denota la capacità di fuggire dall’idea di una vita con ruoli, routine, oneri ed onori prefissati, stabiliti una volta per tutte e da ottemperare fino alla morte, a patto che il dubbio non si trasformi in ossessiva ruminazione. E da qui si può ripartire per rivoluzionare o semplicemente fare qualche piccola messa a punto e godere di quelli che – sulla carta – sono valori aggiunti e peculiarità dei 40 anni (autoironia ed autostima che derivano dall’esperienza “metabolizzata”, capacità di mettere a fuoco l’essenziale lasciando andare senza recriminazioni quello che non conta…). È sufficiente riuscire ad accogliere, ed essere aperti all’ascolto.

40 anni: dall’accettazione (che fa rima con rassegnazione) all’abbraccio

Genitori-anzianiC’è una sostanziale differenza tra la mera presa d’atto del tempo che scorre, del mutare del proprio corpo, delle esigenze e ritmi di vita, e dell’invecchiamento dei genitori, e la capacità di accogliere questo vortice di trasformazioni senza cedere alle sirene della sterile malinconia, né trascorrere le proprie giornate con sfiancanti full immersion nei ricordi. Anche perché queste, quasi inevitabilmente, fanno il paio con la fuga dal presente, ed il rifiuto netto di vivere il qui ed ora, che, seppur può portare con se attività nuove e fonti di dolore (ad es: l’accudimento di un genitore con gravi problemi di salute), può regalare anche nuove esperienze, momenti di gioia ed un nuovo sguardo su di se. Recuperare un hobby “antico” iniziando a frequentare un corso può dare una scossa salutare, regalando quel brivido di adrenalina che risveglia la creatività, e dà nuovo slancio ad una socialità che ormai viaggia su binari tanto lineari e prevedibili da essere diventati soporiferi.

Non accettare, ma abbracciare, dunque. Permettendoci di provare dolore, insicurezza e paura, perché è inevitabile quando dobbiamo fronteggiare – in senso lato – una perdita. Può trattarsi di una relazione che non ha più niente da dare, dell’allentamento/sgretolamento di un rapporto di amicizia significativo, della grave malattia di una persona cara.  Riuscire a godere di piccole cose che appartengono al quotidiano (una passeggiata nel verde, la colazione nel bar preferito, un pomeriggio con i nipoti) anche in questi momenti, e constatare di averli attraversati senza farsene schiacciare è il fondamento di una sensazione troppo a lungo sottovalutata: la serenità.

Coltivare la curiosità e l’ascolto: così ti innamori dei tuoi “anta”

Che fare se il tanto agognato (soprattutto dai nostri genitori) posto fisso da qualche tempo è diventato una corda che si stringe intorno al collo? Eppure negli anni spesi a partecipare a concorsi da una parte all’altra dell’Italia, stabilità faceva rima con felicità…

Tanto per cominciare, dobbiamo fare piazza pulita dei sensi di colpa. Il cambiamento è una componente fisiologica della vita: se restassimo identici a noi stessi dalla nascita alla morte, non saremmo umani. Saremmo statue esposte a tempo indeterminato al museo delle cere. Rimetterci in gioco, nell’ottica di guadagnarci da vivere facendo ciò che amiamo, è un’aspirazione legittima e fattibile. Facendo tesoro del nostro vissuto, possiamo iniziare a costruire un nuovo percorso professionale (mandare curriculum, seguire corsi di formazione) senza rinunciare (o comunque, non nell’immediato) al lavoro che da anni ci permette di essere autonomi.

Non so cosa mi piacerebbe fare. So solo che il mio lavoro non mi piace più

Niente paura. Neanche questo stato di confusione è immutabile. Dandoci modo, con gradualità e costanza, di coltivare i nostri interessi nel tempo loro, e condividerli con altri, spontaneamente si creeranno occasioni e opportunità inaspettate che ci permetteranno di misurarci con nuove attività, e capire qual è il nuovo campo a noi più congeniale.

 

Francesca Garrisi     

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 

 

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