Perchè alle aziende serve un manager della felicità

Niente succede per caso, neppure la felicità

I sentimenti, infatti, sono come muscoli. Per svilupparli e dare loro continuità, è necessario allenarli, e ciò richiede impegno e disciplina. L’avreste mai detto? La felicità è una questione di rigore. Ed a capirlo per primi sono stati i soggetti – apparentemente – più insospettabili: le grandi aziende.

Di cosa si occupa il manager della felicità?

Manager-felicitàMultinazionali come Google, Mc Donald’s e Pixar hanno istituito già qualche anno la figura del Chief Happiness Officer. Attualmente in Italia ce ne sono circa 300. Il loro compito è ristrutturare/integrare l’organizzazione interna della routine aziendale, prevedendo spazi di relax adeguatamente attrezzati, momenti ricreativi ed attività di gruppo finalizzate a incrementare il benessere personale, puntellare il senso di appartenenza e, non da ultimo, intervenire positivamente sulla produttività. (A patto di abbandonare l’irrealistica pretesa di misurare/quantificare questa crescita nel breve periodo).

Il manager della felicità interviene inoltre per suggerire soluzioni e cambi metodologici che garantiscano una funzionale gestione dei rapporti conflittuali all’interno dei gruppi di lavoro, e tra singole persone. Le sue parole d’ordine sono ascolto e tempestivo intervento.

L’importanza della sua figura è emersa con una certa perentorietà a seguito dell’esplosione della pandemia, che ha reso improcrastinabile l’attivazione su vasta scala dello smart working, e soprattutto la ridefinizione del concetto stesso di felicità. Mai come oggi siamo consapevoli che il benessere profondo, autentico e duraturo è quello che passa attraverso il bilanciamento di doveri e piaceri, e attraverso la capacità di liberarsi dal perenne confronto/competizione con le vite altrui.

Come si diventa manager della felicità?

Si raggiunge la qualifica seguendo appositi corsi online aperti sia a risorse interne che esterne all’impresa. Il fondamento teorico su cui poggia questa figura è mutuato dall’assunto neuroscientifico secondo cui la felicità non è una sensazione fortuita ed effimera che piove sulla nostra testa, ma un’abilità, un talento, che, per mantenersi in vita, deve essere nutrito e coltivato con la stessa costanza con cui consumiamo cibo sano e facciamo attività fisica.

 

Francesca Garrisi     

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)


 

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