Per vivere serve qualcosa da mettere ai piedi. Una startup ha pensato a quelli dei bambini africani
Quando c'è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto
In primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l'inverso”. A fare questa riflessione fu lo scrittore Primo Levi; aver vissuto sulla propria pelle una tragedia di proporzioni immani come la seconda guerra mondiale aveva amplificato la chirurgica percezione del suo sguardo.
La considerazione espressa dallo scrittore tocca un aspetto centrale di una questione ancor più ampia. Abituati come siamo, nei paesi occidentali, a considerare le scarpe un accessorio, un oggetto riconducibile a uno stile o a una moda che si accoglie o rigetta, rischiamo di perdere di vista l’importanza della funzione che svolgono. Senza di loro non potremmo raggiungere il luogo di lavoro, viaggiare … in poche parole, vivere.
Camminare a piedi nudi può nuocere gravemente alla salute
Più di due miliardi di persone nel mondo sono affette da parassiti e malattie trasmesse attraverso il suolo. Parliamo di soggetti che vivono in zone in cui l’assistenza sanitaria è insufficiente, e le condizioni igieniche precarie. Si tratta, insomma, di contesti in cui mancano le risorse indispensabili a sancire il discrimine tra esistenza e sopravvivenza; senza scarpe, anche le azioni apparentemente più banali della quotidianità sono precluse.
I bambini non possono andare a scuola, né aiutare le loro famiglie; più di 300 milioni di loro sono costretti a muoversi a piedi nudi, e ancor di più sono quelli che hanno calzature impossibili da indossare perché troppo piccole.
Qualcuno potrà obiettare che esistono centinaia di migliaia di organizzazioni no profit che operano nei Paesi in via di sviluppo, e che quindi, attraverso le donazioni, forniscono ai bambini beni di prima necessità tra cui anche le scarpe. Il punto, però, è che, in giovane età, si cresce molto velocemente. Così, nel giro di un anno le calzature ricevute non sono più della misura giusta, e il problema si ripropone.
Per risolvere il circolo vizioso servirebbero scarpe in grado di adattarsi alla naturale evoluzione della forma del piede dei bambini; qualcosa composto da materiali altamente resistenti. Una considerazione apparentemente banale, nella sua disarmante semplicità, eppure finora nessuno è riuscito a realizzare niente del genere. A colmare la lacuna ci ha pensato The Shoe That Grows, la startup fondata da Kenton Lee.
Che aspetto ha la scarpa “flessibile”?
Simile a una ciabatta, può essere modificata in tre parti: sulla punta, ai lati e dietro il tallone, consentendo a chi la indossa di allungarla e allargarla per un massimo di cinque numeri.
La scarpa che cresce è realizzata con gomma ipercompressa, materiale analogo a quello che compone gli pneumatici. Facile da pulire e resistente, deve assolvere un compito impegnativo: permettere ai bambini “di essere “sani e felici. Pronti a compiere i passi necessari ad afferrare il futuro”.
Com’è nata l’idea?
The Shoe That Grows è nata dopo una lunga “gestazione”, fatta di innumerevoli sperimentazioni e progetti, nessuno dei quali in grado di vincere la “sfida” con l’uso quotidiano. Un periodo all’insegna di errori e tentativi che si è protratto per 5 anni.
La genesi del progetto viene raccontata con queste parole sul sito della startup: “tutto è iniziato quando Kenton Lee viveva e lavorava a Nairobi, in Kenya, nel 2007.
Un giorno, camminando con i bambini, attirò la sua attenzione una ragazzina con un vestito bianco. Le scarpe che aveva erano troppo piccole per i suoi piedi. Non sarebbe stato fantastico se lei e i suoi coetanei avessero avuto a disposizione delle calzature in grado di adeguarsi alla crescita del loro corpo?”.
The Shoe That Grows è un’azienda no profit.
Chi è interessato a contribuire al progetto può effettuare una donazione (un paio di scarpe costa 15 euro), o comprare una valigia con 50 paia di queste, e portarle direttamente dove ce n’è bisogno. Il modo migliore per apprezzare ciò che abbiamo, è vedere con i propri occhi come vive chi non è altrettanto fortunato.