Sono solo canzonette? Quando il ritornello diventa pericoloso

Tu chiamale se vuoi emozioni.

La musica accompagna la vita delle comunità umane da almeno cinquantacinquemila anni e non esiste cultura in cui non siano rintracciabili segni della sua presenza. In principio sotto forma di pura e semplice melodia riprodotta da uno strumento, successivamente con la nascita delle canzoni.

Un’infinità di correnti artistiche si sono succedute nel corso dei secoli fino ad arrivare ai generi degli anni più recenti, in cui la struttura dei brani è facilmente riconducibile a uno schema strofa-ritornello. La storia che ogni artista racconta è condensata appunto nelle strofe, mentre il ritornello somiglia più a un inciso in cui si evidenziano le considerazioni e le convinzioni dell’autore. Per rendere il refrain ancor più penetrante, in genere si adottano un cambio di melodia e un tono più marcato, scegliendo parole facilmente memorizzabili.

È proprio questa la missione del ritornello: deve entrare nella testa di chi l’ascolta, andare in loop per un numero imprecisato di volte e, a Siae piacendo, non uscirne mai più. Il compito della musica, dunque, è quello di suscitare un forte impatto emotivo così da favorire la sedimentazione dei contenuti (una tecnica usata anche nel cinema e in ambito pubblicitario).
Le canzoni di maggior successo hanno avuto il potere di insinuarsi nel gergo comune proprio attraverso l’inciso. Si pensi a Con il nastro rosa di Mogol-Battisti e a quante volte abbiamo usato l’espressione “lo scopriremo solo vivendo” nella vita di tutti i giorni. È divenuta così popolare che spesso è confusa col titolo stesso del brano, come si può constatare attraverso una semplice ricerca su YouTube.

Un’arma a doppio taglio.

A volte capita di ascoltare distrattamente la radio e imbattersi in una nuova canzone. Magari si è impegnati in qualche attività e non si presta la dovuta attenzione alle parole, mentre si rimane piacevolmente colpiti dalla melodia.

Tuttavia il nostro inconscio registra tutto, anche se consapevolmente siamo convinti di non aver memorizzato niente. Il cervello umano, infatti, si compone di miliardi di neuroni, ciascuno dei quali può elaborare milioni di informazioni al secondo. A livello consapevole, invece, emerge solo una minima quantità di questi dati, attimo dopo attimo. È per questo che quando siamo concentrati su qualcosa, tutto il resto sembra non esistere. Tutto ciò che viene immagazzinato a livello inconscio, però, diventa un vero e proprio programma mentale che in occasioni future sarà richiamato e spingerà a compiere una determinata azione.

Tornando al tema musicale, ascoltare brani come l’attualissimo Faccio un casino di Coez, in cui nel ritornello si ripete la frase “amami o faccio un casino”, può essere pericoloso. Suona assurdo, vero? In fondo il testo parla della classica storia finita male tra un uomo e una donna, e di lui che, essendone ancora innamorato, la rivuole accanto a sé. Nel 2003 fu invece Ulivieri, un artista emergente, a scrivere un pezzo intitolato Io ti amo (ma devo ucciderti). Anche in quel caso, l’espressione era ripetuta più volte nell’inciso a mo’ di tormentone e si parlava di un rapporto di coppia travagliato.
Sicuramente in entrambi i casi si è trattato di semplici leggerezze lessicali e gli autori non avevano la minima intenzione di istigare qualcuno a compiere insani gesti, tuttavia il messaggio divulgato è quantomeno discutibile.

Il cervello non distingue tra realtà e fantasia.

Per quanto gli autori possano essere stati metaforici, l’ascoltatore medio recepisce solo il senso letterale di quelle parole, peraltro accompagnate da una musica accattivante. Inoltre, poiché sono state proferite da una fonte autorevole (tale è considerato un cantante che ha notevole visibilità mediatica), attecchiscono con maggiore facilità. Ciò significa che nel momento in cui ci si troverà di fronte a una situazione simile, a livello personale, si potrà seriamente pensare di “fare un casino” oppure “uccidere”.

Viviamo in un’epoca in cui fidanzati o mariti gelosi non riescono a gestire le proprie emozioni, men che meno l’abbandono, e sfregiano le loro donne con l’acido, le ardono vive o le accoltellano a morte. Diffondere messaggi come quelli delle suddette canzoni equivale a rafforzare (e radicare) in certi uomini l’idea che simili comportamenti siano plausibili. Sarebbe il caso, quindi, di fare molta attenzione a ciò che si scrive e si condivide con gli altri, per evitare di contribuire a creare realtà spiacevoli.

Anziché i soliti versi piagnoni che tradiscono l’evidente stato di nevrosi infantile in cui versa l’autore, sarebbe poi interessante cominciare a scrivere storie dove tizio e caia accettano serenamente la loro separazione e procedono ciascuno per la propria strada. A quanto pare, però, è opinione comune che un simile atteggiamento attenga unicamente ai supereroi.

 

di Giovanni Antonucci

autore del romanzo "Veronica Fuori Tempo"

 

 

 
 
 

 

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