Quello che non vi hanno detto sul declino dei centri commerciali

La fredda cronaca.

Sono spuntati come funghi su tutto il territorio italiano fin dagli anni Ottanta, registrando un vero e proprio boom con l’avvento del nuovo millennio. Oggi, salvo rare eccezioni, si stanno inesorabilmente svuotando di negozi e clienti

I centri commerciali delle principali città del Belpaese somigliano sempre più a quei villaggi desolati del Far West in cui si udivano soltanto il sibilo del vento e il cigolio delle porte dei saloon.

Neanche a farlo apposta, sono nati negli Stati Uniti d’America. Era il 1953 quando a Detroit sorse Northland, il primo centro commerciale della storia. Un progetto pionieristico nato dieci anni prima, dalla mente creativa di una dozzina di architetti ai quali fu chiesto di immaginare le città del futuro. Un modello sostenibile che fosse in grado di affermarsi anche nel dopoguerra.

Dagli anni Settanta in poi si sono diffusi nel resto del mondo, in particolare in Europa. Visti inizialmente come simboli di crescita economica e progresso, sono ora la fotografia dello stato di profonda recessione in cui versa l’Occidente.
 

Le cause del declino.

È proprio la crisi della classe media, secondo gli esperti, la causa principale del fallimento dei centri commerciali. Quest’ultimi, infatti, sono stati creati per quella categoria sociale che non può permettersi di fare acquisti nei negozi di lusso ma al tempo stesso non compra al discount.

Negli ultimi anni, buona parte del ceto medio è retrocesso allo status di classe povera e ha cominciato a rivolgersi all’e-commerce per i propri acquisti. Complici gli sconti e le spese di spedizione incluse nel prezzo, abbigliamento e accessori, così come tanti altri prodotti, sono ormai acquistati principalmente online.

La società è cambiata anche in termini di abitudini dei consumatori. La gente, oggi, preferisce spendere nei ristoranti, oppure per viaggi e tecnologia. L’offerta dei centri commerciali, pertanto, supera l’effettiva domanda e costringe sempre più negozi alla chiusura.

Quali soluzioni all’orizzonte?

Le imprese immobiliari che hanno costruito questi moderni empori, di concerto con le società che li gestiscono, stanno disperatamente cercando di correre ai ripari. Tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, sono al vaglio soluzioni per reinventare gli spazi e farli diventare delle proprietà a cielo aperto.

Gli americani li chiamano “centri di lifestyle” e comprendono teatri, cinema, uffici medici, ristoranti, centri di aggregazione sociale e addirittura scuole. La ristrutturazione prevede l’abbattimento delle coperture dei corridoi nonché il restyling delle entrate e delle aree circostanti.

Siamo proprio sicuri che queste idee siano originali e innovative? A rileggere un po’ di storia, si direbbe di no…

Chi la fa, l’aspetti.

In realtà i cosiddetti shopping mall sono stati progettati nel lontano 1943 con lo scopo di servire intere aree residenziali povere di buone strutture commerciali. Il principio ispiratore era quello di dare ai residenti un posto per incontrarsi, passeggiare e riposare in ampi spazi verdi, lontani dal traffico della città.

All’interno del sopracitato Northland c’erano botteghe e negozi, grandi aree per attività culturali e feste, un centro comunitario dotato di auditorium, un ufficio postale, ambulatori medici e dentistici, e anche un teatro.

Due anni più tardi, a Southdale, vicino Minneapolis, su progetto di Victor Gruen aprì il primo centro commerciale coperto e ad aria condizionata. Le strutture erano raggruppate attorno a un enorme cortile a giardino alto tre piani, che divenne non solo il punto d’incontro per gli abitanti della cittadina, ma anche il posto dove avevano luogo alcuni dei più importanti eventi pubblici di Minneapolis.

La sera si tenevano concerti sinfonici, feste e balli. Oltre all’auditorium, a un ufficio postale e altri servizi urbani, c’erano anche un asilo nido e un piccolo zoo. Un progetto rivoluzionario che ebbe enorme successo.

Tuttavia, negli anni a seguire, le idee ambientaliste e umanistiche che stavano alla base dei centri commerciali originali sono cadute nel dimenticatoio. Sono state copiate solo le caratteristiche rivelatesi fonte di profitto.

Gli speculatori immobiliari hanno abbandonato la mission di servire i bisogni di un quartiere in modo serio e responsabile, limitandosi a costruire macchine commerciali da collocare ovunque. Hanno cominciato ad acquistare terreni a prezzi stracciati, situati perlopiù in aree disabitate, spostando i consumi al di fuori dei centri urbani.

L'operazione ha avuto un impatto devastante sull’economia delle aree centrali, specie in Europa, dove le città erano cresciute in modo organico e offrivano già da secoli opportunità di comunicazione e interazione fra gli individui. È proprio lì, del resto, che sono nati i principali movimenti artistici e culturali tuttora patrimonio dell’umanità.

Per via di questa sciagurata speculazione, migliaia di piccoli negozi hanno dovuto abbassare per sempre la saracinesca e la tradizione della spesa all’angolo sotto casa è diventata un ricordo.

Oggi l’e-commerce sta ripagando con la stessa moneta gli squali del mercato immobiliare e le soluzioni che quest’ultimi stanno proponendo per uscire dall’impasse non sono altro che un plagio del progetto originale di Victor Gruen e dei suoi colleghi.

Mode e tendenze possono cambiare e spesso riproporsi, per carità, ma alla luce dei cambiamenti sociali susseguitisi nel corso degli anni, l’insuccesso sembra garantito. Non a caso il fallimento dei centri commerciali pare inarrestabile.

 

di Giovanni Antonucci

autore del romanzo "Veronica Fuori Tempo"

 

 

 
 
 

 

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