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Dolore pulito Vs dolore sporco: tornare a vivere dopo un trauma

Subire una perdita (una di quelle irreversibili e definitive, per intenderci) e spostare lo sguardo altrove

Dolore-pulito-dolore-sporco-ACTAvere la sensazione di non provare alcun dolore per la morte della persona cara e, invece, attraversare ogni giorno una via crucis interiore fatta di pensieri intrusivi, ansie anticipatorie e dubbi che vertono su tutt’altro (apparentemente).

Andare incontro ad un lutto come anestetizzati, e poi sbottare “improvvisamente” in un giorno che sembra qualunque, per una questione irrilevante. Può trattarsi di un guasto alla macchina, una frase infelice pronunciata dal partner, o un “furbetto della fila” che ci passa davanti mentre siamo in posta da un’ora, in attesa che sul display compaia il nostro numero.

La perdita (fisica) di chi amavamo, ed il trauma per un incidente subito o una grave malattia, costituiscono il cosiddetto dolore pulito, secondo la definizione coniata nell’ambito dell’ACT, Acceptance and Commitment Therapy). Vale a dire, la radice, il nucleo originario del nostro malessere psicosomatico o emotivo: il motivo autentico della nostra sofferenza. Il dolore sporco, invece, è quello che scaturisce dal tentativo di ignorare la fonte dei nostri stati d’animo negativi.

Il dolore sporco è “figlio” di pensieri intrusivi, ansie anticipatorie e dubbi che “ricamiamo” sul dolore pulito per camuffarlo. È quello che ci porta a indugiare con la fantasia su scenari futuri particolarmente catastrofici. Un esempio pratico: rimuginare ossessivamente sui possibili risvolti dell’incertezza intrinseca, della vulnerabilità estrema seguita ad un lutto (“e se il mio capo mi licenziasse perché non sono più produttivo? E se il mio compagno mi lasciasse perché sono sempre triste?”).

Il dolore pulito, invece è quello che ci consentirebbe di esplorare ed esprimere l’intera gamma di sentimenti ed emozioni (spesso contradditori) che scaturiscono da un lutto. Il vuoto, la paura di essere inutili e tremendamente esposti ai fattori esterni, la rabbia, il dubbio di non aver fatto abbastanza, l’impotenza per parole non dette e gesti non fatti…

 

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Ikigai: il metodo giapponese per scoprire il tuo scopo di vita

 

ACT: rinunciare al controllo…e all’identificazione con i propri pensieri  

L’Acceptance & Commitment Therapy (Terapia di Accettazione e Impegno) è un filone psicoterapeutico derivato dalla Terapia Cognitivo Comportamentale. Avvalendosi della meditazione mindfulness, promuove il contatto compassionevole con stress ed emozioni negative connessi frequentemente ad un trauma vissuto.

A porre le basi per lo sviluppo dell’ACT è stato Steven Hayes, con l’intento di aiutare l’individuo a liberarsi dell’abbraccio mortale di giudizi e recriminazioni su se stesso.

Dolore-pulito-dolore-sporco-ACTControllare/prevedere l’insorgere di situazioni sgradevoli e dolorose NON è umanamente possibile; l’evitamento esperenziale, ha un SOLO e CERTO effetto: ridurre drasticamente il nostro raggio d’azione, impedendoci di crescere e sviluppare le nostre passioni. Allenarci a posare lo sguardo su ciò che ci fa star male, invece, scongiura l’immobilismo. Ci evita di impantanarci, restare bloccati nel dolore, farlo cristallizzare e, in ultima analisi, di identificarci/considerarci un tutt’uno con esso. L’accettazione è quindi fondamentale per raggiungere la defusione cognitiva, vale a dire mettere a fuoco i meccanismo disfunzionali dei nostri pensieri e NON alimentarli.

Ciò libera un quantitativo inatteso (e spesso inimmaginabile) di energie che possiamo investire per allineare la quotidianità ai nostri valori, e individuare gli obiettivi da perseguire.

 

 

Francesca Garrisi     

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 

 

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Ikigai: il metodo giapponese per scoprire il tuo scopo di vita

Qual è il motivo per cui ti alzi la mattina?

No, non mi riferisco alla prima cosa che ti viene in mente da sveglio, né a tutto quello che sai che dovrai fare durante la giornata. Mi riferisco a qualcosa di più profondo e sottile. La radice – ed il discrimine – tra una quotidianità che ti appaga e ti nutre, stimolandoti comunque al miglioramento ed alla continua ridefinizione dei tuoi limiti, ed una routine in cui c’è poco (o nessuno) spazio per i tuoi desideri, ed anche solo per chiederti: come sto?

L’autenticità, la coerenza tra ciò che sentiamo e ciò che facciamo, e la capacità di connettere questo con i bisogni della comunità in cui viviamo definiscono il concetto di ikigai. Il letterale motivo per cui ci alziamo la mattina: agire quello che ci appassiona, ci fa sentire vivi…ed utili al prossimo. Questa parola, come forse avrai intuito, non è inglese, bensì giapponese. Si può definire un concentrato e distillato della sapienza pratica orientale, nonché uno dei fattori che concorre alla sorprendente longevità nipponica, che è valsa all’arcipelago di Okinawa l’inclusione nell’elenco delle Zone Blu.

La (lunga) strada verso l’ikigai

IkigaiNon è semplice né immediato mettere a fuoco il nostro X factor. Un’attività che faccia sentire realizzati, consapevoli, centrati sul qui ed ora, e pienamente inseriti nel nostro contesto. Questo però non deve scoraggiarci: mettendoci in ascolto di noi stessi, preparandoci a sfoltire il superfluo ed armandoci di pazienza, possiamo arrivarci.

Ne “Il piccolo libro dell’ikigai” Ken Mogi ha individuato cinque buone pratiche propizie a creare le condizioni ottimali all’emergere della nostra personale ragione e scopo di vita. In primis è necessario muoverci un passo alla volta (niente più fantasmagorici progetti completamente scollegati dalla realtà), abbandonarci al fluire delle idee, della creatività e delle possibilità. Adottare un’ottica esistenziale sostenibile, fondata sulla capacità di godere delle piccole cose PRESENTI, resistendo alle lusinghe agrodolci (ma dannose) dei rimpianti/rimorsi sul passato e delle ansie proiettate sul futuro.

Un esercizio pratico per trovare il proprio ikigai

IkigaiRicordi la teoria degli insiemi che hai studiato in matematica? È l’intersezione tra quattro ambiti che determina l’ikigai di ognuno di noi. Vale a dire, l’attività che soddisfa CONTEMPORANEAMENTE quattro criteri:

-       ti piace (passione)

-       è utile al prossimo (missione)

-       sei bravo a svolgerla (vocazione)

-       può garantirti un compenso economico (professione)

Sei scettico e pessimista circa la possibilità di individuare effettivamente una cosa che rientri in tutti e quattro gli ambiti? Provarci non costa nulla…se poi ci riesci, contribuisci attivamente anche a migliorare la tua salute. Da uno studio del 2008 dell’Università di Tohoku (Nord Giappone) è infatti emerso che il tasso di mortalità di chi aveva trovato il proprio ikigai era nettamente più basso rispetto al resto della popolazione.

 

 

Francesca Garrisi     

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 

 

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Honjok, quanto è bello stare bene anche da soli

Ogni uomo è un’isola, e rimango di questa opinione. Però, chiaramente, alcuni uomini fanno parte di un arcipelago di isole. E sotto l’oceano in effetti le isole sono collegate.

HonjokQuanta verità in queste parole pronunciate da Hugh Grant in About a boy. Probabilmente però, i tempi non erano maturi - correva l’anno 2002 – perché all’orgoglio del riconoscersi individuo prima che coppia/marito-moglie/padre-madre venisse riconosciuta dignità di esistere nell’immaginario collettivo.

Ancora oggi permangono sacche di pregiudizio nei confronti di chi sceglie di vivere la propria vita come Will, il personaggio interpretato da Hugh Grant in About a boy; il pregiudizio sfiora il linciaggio sociale se è la donna ad “osare” considerarsi prima di tutto persona anziché fidanzata/compagna/etc etc, ma tant’è. Oggi sono in netto aumento input e suggestioni che vanno in controtendenza, tra questi, l’honjok coreano: parola che può essere tradotta letteralmente come “tribù di una sola persona”. Insomma, aspirare ad essere innanzitutto la famiglia di se stessi forse non sarà più considerata un’incurabile ed incomprensibile perversione, ma la risposta sana e funzionale alla midollare precarietà dell’epoca in cui viviamo.

Cos’è l’honjok e com’è nato

HonjokIl termine, nato dalla combinazione di due parole già esistenti (hon: solo e jok: tribù), è comparso nel 2010, ma solo in anni più recenti ha cominciato ad essere usato per indicare il nuovo stile di vita che si sta diffondendo tra i giovani coreani decisi a non farsi incasellare da aspettative e modelli sociali all’insegna del “non avrai altro oltre alla coppia/famiglia”.

Secondo alcune stime, già nel 2016 in Corea del Sud quasi il 30% delle famiglie era costituito da una sola persona. Dieci anni prima, invece, la stragrande maggioranza dei nuclei familiari contava almeno tre persone.

Cosa ha determinato questo stravolgimento del panorama sociale? In primis il massiccio spostamento dei giovani dai contesti rurali verso le grandi città (Seoul, Busan) per frequentare l’università, ed, in parallelo, l’emergere di nuove priorità per le giovani donne. Non più (o comunque, non necessariamente) mettere su famiglia: largo alle ambizioni, alla realizzazione professionale ed all’indipendenza economica. E il Covid19 ha fatto il resto.

L’honjok ha svariate declinazioni nel quotidiano: mangiare da soli (honbap), andare a fare spese (honsho), cantare al karaoke (honnol), viaggiare (honhaeng); il marketing non ha tardato a fatturare grazie a questo stile di vita in ascesa: è nata così la hon-economy, caratterizzata da speciali promozioni dedicate al cibo in monoporzioni.

Honjok? Perché no!

La vulgata comune identifica la condizione individuale con sensazioni ed elementi negativi (tristezza, fallimento, inutilità, impotenza, irreversibilità), ma si tratta di un’esemplificazione tanto brutale quanto infondata.

Quante volte ciascuno di noi si è sentito triste, incapace, incompreso e frustrato, pur essendo in una relazione, o circondato da una folta schiera di “amici”? Questa è solitudine.

Altra cosa è l’essere fisicamente soli: rimanendo concentrati su qui ed ora (anche attraverso la pratica mindfulness), vivendo appieno quello che ci succede, positivo o negativo che sia, evitiamo di farci travolgere dalle ansie anticipatorie, dai rimpianti e dai rimorsi connessi al passato…in una parola: evitiamo di cadere nella spirale della solitudine.

L’honjok riporta di attualità un principio di buonsenso che dovrebbe essere ampiamente condiviso e praticato: non si può costruire una cosa solida, confortevole e bella, se prima non vengono poste adeguate fondamenta.

Godere della nostra compagnia, saper essere genitori di noi stessi, riuscire a concederci il conforto/la compassione/il merito che ci spetta di volta in volta, è condizione indispensabile per creare rapporti soddisfacenti con persone che ci rispettino e che non travalichino i confini (fisici, affettivi) che abbiamo fissato.

Godere della compagnia di noi stessi è l’ancora di salvezza che ci impedisce di sentirci finiti quando finisce un amore, quando muore una persona cara, quando perdiamo il lavoro a cui avevamo dedicato tempo ed energie, quando ci delude un caro amico.

Non è un caso, quindi, che l’honjok sia sbarcato sul mercato editoriale italiano: Silvia Lazzaris ha infatti pubblicato per White Star Honjok. Il metodo coreano per vivere felici con se stessi.

Che i tempi siano finalmente maturi per innestare un pizzico di salutare saggezza orientale nel modello mediterraneo marcatamente familistico? Ne guadagneremmo sia in termini di quantità che di qualità della vita

 

Francesca Garrisi     

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 

 

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