Facebook non va proprio d’accordo con il lavoro, si sa, ma le statistiche continuano a mostrare quanto agli italiani piaccia accedere al popolare social network durante le ore passate in ufficio.Per riuscire a far fronte a questo uso non corretto della piattaforma di Zuckerberg, la Cassazione ha sentenziato che i datori di lavoro, se sei un social addicted, possono persino arrivare al licenziamento.
A farsi i fatti propri (e altrui), a quanto pare, si rischia il posto di lavoro. Ecco quanto emerge dalla sentenza della Cassazione sul destino di una donna bresciana, licenziata perché colta più volte a utilizzare il social durante le ore di ufficio.
La Cassazione ha detto sì
Non si può dire che l’azienda non abbia consegnato prove schiaccianti: in un anno e mezzo infatti la donna era stata attentamente monitorata.
Risultato? La cronologia del pc da lei utilizzato ha riportato un numero di accessi complessivamente pari a circa 4500 volte, per circa undici log in quotidiani;
Dal momento che la signora era peraltro assunta part time all’interno di uno studio medico della provincia di Brescia, ai giudici tanto è bastato per inserire nella sentenza un grave comportamento in contrasto con l’etica comune che ha incrinato il rapporto di fiducia tra dipendente e datore di lavoro.
Non è la prima volta che, negli ultimi tempi, giunge un simile verdetto: infatti, recentemente aveva destato altrettanto clamore il licenziamento verso alcuni dipendenti che avevano apertamente manifestato su Facebook critiche denigratorie e diffamanti nei confronti dell’azienda per cui erano stati assunti.
Risultato? Anche qui la Cassazione ha confermato la sentenza per condotta lesiva ai danni dell’azienda e del vincolo di fiducia tra capo e dipendenti.
E se si trattasse di violazione della privacy?
Tornando al caso dello studio medico bresciano, nessuna violazione della privacy: sempre la Cassazione ha fermamente respinto la difesa che ha invocato tale diritto.
Tuttavia, non essendo state consegnate informazioni sensibili personali della donna non vi è stata violazione alcuna e inoltre il dispositivo utilizzato per gli accessi a Facebook è di proprietà dell’azienda
Il pc era stato consegnato nelle mani della dipendente che ne faceva un utilizzo privato. Nemmeno l’aver messo in dubbio che non potesse essere effettivamente la donna ad aver usato il social ha retto in tribunale,; gli avvocati difensori hanno infatti contestato la necessità della password per accedere al profilo personale. Insomma, non poteva essere che lei.
E a voi, per cui la curiosità la fa da padrone per controllare cosa succede sui social, attendete almeno la vostra pausa e … buon lavoro.
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