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Nazena: la startup che fa rinascere i rifiuti tessili e riduce le emissioni

Cotto e mangiato. La fast way of life è la pianta infestante che monopolizza la nostra quotidianità

E le ripercussioni (o meglio, i danni) sono sotto gli occhi di tutti

Per spezzare il circolo vizioso, o quantomeno ridurre l’impatto della nostra voracità esistenziale sull’ambiente, si sta facendo strada nelle coscienze e sui media una nuova parola: circolarità. Riutilizzare, riciclare, a tavola e non solo. Edonismo e spreco disinvolti e spensierati non sono più un vezzo da coltivare.

E anche avere armadi e cassetti traboccanti di vestiti, giacche, ed accessori praticamente mai indossati non è più qualcosa di cui vantarsi, da ostentare come un’abitudine a cui siamo talmente affezionati da non provare nemmeno a sradicarla.

Tutt’altro.

L’insospettabile peso dei rifiuti tessili

Nazena-upcycling

Questi incidono sulla salute dell’ambiente (quindi sulla nostra e su quella delle generazioni future) ben più di quanto immagineremmo. Da questo punto di vista, infatti, un cardigan non è più leggero di un cumulo di plastica. Si stima che il 10% delle emissioni globali di anidride carbonica sia prodotto dai rifiuti tessili; la quasi totalità di capi di vestiario che gettiamo nell’immondizia - 34 chili ciascuno all’anno - finisce negli inceneritori.

La startup Nazena rappresenta il prezioso granello di sabbia che può inceppare questo perverso meccanismo. La sua attività è indirizzata al recupero di materiale tessile di scarto delle aziende di settore e di vestiti usati, dando loro una seconda vita, nuovo valore e forma (upcycling), ispirandosi al principio di innovability (innovation + sustainability = utilizzare la tecnologia per tutelare l’ambiente e ridurre l’inquinamento).

Quando e com'è nata Nazena?

Nazena-upcyclingVicenza, aprile 2019. Giulia De Rossi, fondatrice della startup, è appena tornata da un viaggio in Giappone e vuole mettere a frutto i suoi studi nell’ambito della moda e della sostenibilità ambientale.A lei si unisce in un secondo momento Stefano Lora, che si occupa dell’attività manifatturiera.

Nazena opera in stretta connessione con le aziende tessili, prende in consegna ciò che per loro è “solo” scarto di produzione, e attraverso un processo brevettato che prevede sanificazione e lavorazione, lo trasforma in nuovi oggetti. Qualche esempio: elementi di packaging riutilizzabili dalle imprese, appendini per abiti, allestimenti ecosostenibili. Riutilizzare le fibre tessili per creare nuovi prodotti permette di ridurre il riscaldamento globale (-53%), l’ossidazione (-45%) e l’eutrofizzazione delle acque (-95%). Nello specifico, per ogni kg di rifiuti tessili recuperati da Nazena NON vengono emessi nell’aria circa 3,8 kg di anidride carbonica, che equivalgono a quattro docce calde.

Scommettiamo che stai già guardando con occhi diversi i vestiti intonsi parcheggiati da anni nel tuo armadio?

 

Francesca Garrisi     

Quando le cose non mi divertono, mi ammalo  (H.B.)

 


 

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Riconvertire le raffinerie marchigiane. Il progetto della sedicenne Bianca

Giovani, sempre bistrattati e accusati di essere peggiori della generazione precedente.

Invece, spesso, sono migliori di noi e hanno l'entusiasmo e la voglia di cambiare le regole del mondo che li circonda.

La generazione Z ha infatti una coscienza ambientale molto spiccata e lo dimostra la quantità di progetti e idee che sviluppa per migliorare la situazione e la maggiore consapevolezza delle battaglie che dovrà affrontare. 

Come Bianca Barchiesi, 16 anni, una delle giovani changemaker di Gen C, iniziativa promossa da Ashoka Italia e Agenzia Nazionale per i Giovani, realtà che si propone di identificare le storie di ragazzi che, attaverso le loro innovazioni, si stanno impegnando per realizzare azioni e iniziative di protagonismo nei propri territori.  

Riconvertire le raffinerie

Sin da quando era piccola Bianca era appassionata al tema della biodiversità marina, poi si è avvicinata a quello del cambiamento climatico. 

Bianca è di Jesi, vicino Falconara Marittima, una delle zone ad alto rischio di crisi ambientale marchigiane, dove si rileva un inquinamento atmosferico molto alto e un grande aumento della mortalità dovuto a quest'ultimo. 

Bianca si è rimboccata le maniche e ha pensato a cosa avrebbe potuto fare per la sua regione. Risultato? Crea un progetto di riconversione dell’intera area che potrebbe essere vantaggioso per l’industria stessa.

Con il sostegno di Younicef, il programma di Unicef dedicato ai giovani, ha gettato le basi per una proposta molto interessante durante un hackathon organizzato a Jesi, che ha coinvolto coetanei e studenti universitari sul tema del climate change.  

L’obiettivo è la riconversione di parte della produzione energetica del sistema di raffinerie che si trova sul litorale marchigiano attraverso il loro inserimento in una classifica nazionale che si dovrà basare su criteri ecologici migliorabili.  

Tramite apposite piattaforme permetterà di rilevare miglioramenti nella qualità dell’aria e raccoglierà feedback e informazioni da parte della popolazione locale. Chi occupa la posizione più elevata avrebbe maggiore pubblicità e possibilità di aiutare le raffinerie più in basso. 

L’idea parte dal fatto che una raffineria non sarebbe mai disposta ad adattarsi senza ricevere nulla in cambio. Pubblicità o incentivi potrebbero favorire il processo di riconversione.  

I giovani sono il presente, non solo il futuro

Bianca, grazie all'appoggio dell'Unicef,  è riuscita a presentare il progetto durante la Pre-COP 26, da allora la rete si è allargata ancora inglobando altre realtà locali e associazioni dei territori.

 Si tratta di un problema sentito non solo dalla popolazione locale ma anche dai lavoratori delle raffinerie, che subiscono il peggioramento della qualità della vita.  

«Queste sono proprio le tematiche verso cui il mondo deve effettivamente essere solidale e unirsi. Io do molta importanza al ruolo dei giovani nella società: generalmente si dice che sono il futuro, ma in realtà sono il presente perché la loro energia, forza e innovazione devono essere al centro delle decisioni politiche e non, per portare sempre a nuovi cambiamenti e arricchimenti per la società. Sono i temi sui quali si deve ancora lavorare molto. Dobbiamo essere educati non solo noi giovani, ma anche i più grandi che oggi si trovano a prendere decisioni per noi» gha risposto Bianca durante un'intervista a L'Italia che cambia.

L’obiettivo di Bianca è proseguire con la progettazione e creare un network ancora più esteso per trattare tematiche che riguardano la società e la vita del giovani nella società. 

Per quanto mi riguarda, le faccio il mio più sincero in bocca al lupo.

 

Irene Caltabiano 

 

 


 

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Agricoltura naturale: lasciar fare alla natura conviene anche all'uomo

La forma più alta di cura verso la terra?

Riconoscerle la libertà di seguire i suoi ritmi, dettati dall’alternarsi delle stagioni e dei fenomeni meteorologici. Riuscire a NON fare, a non interferire. Sembra paradossale, vero? Lo sforzo più intenso e prolungato, per l’essere umano, è quello richiesto dal sottrarsi all’azione. Rinunciare all’illusione – ormai cronicizzata – di poter/dover controllare tutto, prevedendo/impedendo qualunque imprevisto a carattere negativo.

L’agricoltura naturale rovescia (letteralmente) questo assunto. A idearla, negli anni Quaranta del Novecento, è lo scienziato giapponese Masanobu Fukuoka.

Attingendo alla sua esperienza in ambito agrario, alla sua specializzazione in microbiologia applicata alle malattie delle piante e – non ultimo – al suo interesse per la filosofia, mette a punto un metodo di coltura dalla forte carica sovversiva.

Non è l’uomo con le sue esigenze e la sua tendenza a forzare la natura ad essere centrale nella pratica agricola, ma la terra stessa. Non è un caso, infatti, che tutti i tentativi di (s) forzarla, nel breve/medio periodo si rivelino fallimentari, e spesso anche forieri di ripercussioni sulla popolazione (locale e non solo).

Agricoltura naturale: i quattro corollari del non fare

Agricoltura-naturaleIl metodo ideato da Masanobu Fukuoka si articola in quattro principi dalle evidenti ricadute pratiche. Il minimo comun denominatore è l’astensione da alcune azioni che nell’immaginario comune, a torto, sono ritenute fondamentali per mettere a frutto la terra.

- No alla lavorazione dei campi

- No all’aratura

- Niente concimi/diserbanti/pesticidi

- Niente sarchiatura/potatura.

Sembra incredibile ma è vero: la terra riesce ad ararsi da sola, grazie alla presenza al suo interno delle radici e della cosiddetta fauna edafica, caratterizzata dal particolare potere nutritivo.

Sono banditi i fertilizzanti. L’agricoltore deve limitarsi a raccogliere i frutti senza intervenire sul campo, che si rigenera da sé attraverso la pacciamatura.

Nell’agricoltura naturale persino le erbacce hanno una funzione ed un’utilità. Alcune infatti possono essere mangiate, altre utilizzate in ambito erboristico o sfruttate in funzione impollinatrice o per attutire la carica distruttiva degli agenti atmosferici (gelo, vento).

Insomma, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Anche per il bene dell’uomo.

 

Francesca Garrisi     

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