Una ricerca spietata sembra confermare che sia proprio così! La ricerca pubblicata su Nature Neuroscience a marzo di quest’anno su con un titolo fin troppo chiaro: “Reddito familiare, livello di istruzione dei genitori e struttura del cervello di bambini e adolescenti”.
Quei 1.099 tra bambini e ragazzi infilati nel tubo della risonanza magnetica avrebbero dimostrato l’esistenza di una correlazione diretta tra superficie della corteccia cerebrale e indicatori quali gli anni di scolarizzazione dei genitori e perfino il loro stipendio.
Quindi NON date la colpa alla scuola
L’intelligenza di una persona non si costruisce lì, ma a casa, con i genitori e i cuginetti. E si costruisce molto presto, ben prima del suono della campanella. Lo dimostrano le ricerche che hanno seguito lo sviluppo cognitivo dei bambini nei loro primi anni di vita. E quelle che, poco più tardi, hanno studiato la maturazione del cervello e perché ciò che i maestri di prima elementare fino a oggi sospettavano soltanto abbia, invece, fondamenta biologiche chiare.
Ricchi e poveri a confronto. Ecco i test
Messi insieme, questi studi dicono comunque una cosa chiara, e non così ovvia: a destinare i bambini a un futuro intelligente è quel che succede quando siamo piccolissimi, passeggiando al parco con i nonni oppure stando sul divano a sfogliare un “libro di figure” insieme ai genitori. Lo si è cominciato a discutere con numeri e statistiche più o meno all’inizio degli anni Ottanta quando gli psicologi dell’università del Kansas, Betty Hart e Todd Risley, rivolsero la loro attenzione a Head Start, (ricco) programma per l’educazione dei figli delle classi più povere inaugurato in Usa nel 1960 e basato sull’idea che gli svantaggi di un ambiente socialmente sfavorevole potessero essere compensati da un’attenzione pedagogica mirata fin dalla prima elementare. In realtà, l’analisi mostrò che i risultati scolastici dei bambini non miglioravano granché, tantomeno nell’area scientifico-matematica.
Erano bambini di cinque anni o anche più.
Troppo vecchi, sospettarono Hart e Risley. Qualcosa di importante doveva essere già successo in loro per renderli così tanto più impermeabili all’educazione scolastica rispetto ai figli dei ricchi. Per capire di che cosa si trattasse, misero in piedi un esperimento della durata di tre anni poi raccontato nel libro Meaningful Differences in the Everyday Experience of Young American Children .
Il livello economico e culturale.
La differenza è risultata essere impressionante: nell’ordine dei milioni. Anzi, decine di milioni. Per la precisione, 32 milioni di parole di differenza tra quelle ascoltate in casa dal figlio dei professionisti e quelle ascoltate dal figlio della famiglia povera. Per di più si trattava anche di una differenza qualitativa: le parole ascoltate dal primo erano più varie e inserite in discorsi più ricchi di emotività. Ed erano sempre più incoraggianti di quelle rivolte al coetaneo meno fortunato, che dai genitori riceveva quasi soltanto istruzioni tecniche (“rimetti a posto i giochi”, “vieni qua”, “non piangere”) e soprattutto rimproveri.
Gli psicologi di mezzo mondo cominciarono a chiedersi se questa differenza non fosse, almeno in parte, strutturale e inevitabile. Cioè se i risultati di Hart e Risley non dimostrassero che le persone che riescono a raggiungere le fasce più alte di cultura e reddito non siano dotate di geni migliori, così come i loro figli. E se dunque si potesse davvero intervenire. Ci si chiese come costruire una scuola migliore, e se ne valesse la pena. Se disegnare classi omogenee servisse a qualcosa ma anche se differenziarle non peggiorasse la situazione.
La spiegazione
Ma, mentre il dibattito sui risvolti sociali della ricerca prosegue, abbiamo più o meno capito perché succede. E la spiegazione è nella crescita delle reti di neuroni. Il numero dei nostri neuroni, infatti, è massimo tra i terzo e il sesto mese di vita intrauterina. Mentre alla nascita cono circa 80-100 miliardi. Tra questi si stabiliscono migliaia di miliardi connessioni (le sinapsi), ma anche queste variano secondo il tempo. Cioè sono circa 2.500 per neurone all’inizio, 15mila verso i due-tre anni, e poi un numero progressivamente decrescente. Ma qui la decrescita avviene perché è il cervello che fa pulizia, eliminando le sinapsi che gli appaiono inutili. Questa tumultuosa crescita del numero di sinapsi e la loro, altrettanto tumultuosa, “potatura” sono indispensabili per la maturazione delle funzioni del cervello. E sono influenzati da quello che succede intorno a lui. Ecco perché attenzioni e stimoli rinforzano e modellano certe reti di neuroni, mentre un ambiente deprimente risulta in un cervello con meno connessioni e meno possibilità.
Come prevenire i danni
La maturazione del sistema nervoso continua anche oltre, ma entro i tre anni il più è fatto. È la ragione per cui gli psicologi e i pediatri sono sempre più attenti nell’incoraggiare i genitori e le altre figure con cui i bambini crescono a giocare coi piccoli, a comunicare con loro, a costruire relazioni fatte di azioni e reazioni esplicite, a mostrare i sentimenti e le emozioni, a raccontare storie e così via. Perché quando arriverà la campanella sarà l’ora di imparare a leggere e a scrivere e nessuna scuola speciale con programmi speciali e insegnanti speciali potrà più recuperare quello che il bambino avrà spontaneamente imparato dall’ambiente in cui è cresciuto. Se volete figli intelligenti, insomma, dedicate loro più pomeriggi di giochi sul tappeto e all’aria aperta: il loro cervello vi ringrazierà.
Guarda il video tra un bambino ricco e uno povero e gli effetti sulla crescita
Persone che hanno cambiato vita e deciso di emigrare, di viaggiare, di andare a vivere in campagna, di riscoprire la natura, di diventare imprenditori di se stessi o semplicemente di rallentare, per ritrovare l’equilibrio perduto. Inseguendo un sogno.
E hanno trovato una risposta, dal momento che si erano fermati, per fortuna, a farsi una domanda: Voglio davvero vivere così? Non posso avere di meglio, non posso essere davvero felice?
"Mollo tutto! E faccio solo quello che mi pare"
che poi è il titolo di un libro recentemente pubblicato dalla De Agostini, anche se in momenti come questi, in cui la crisi e la paura del futuro, letteralmente, tolgono il sonno a molti di noi è importante non scambiare la creatività con l'avventatezza.
Gioco è la parola chiave di tutto
Trasformare il lavoro in un gioco o, trasformare il gioco in un lavoro. La chiave è comunque quella di rintracciare nelle nostre vite ciò che ci diverte e coltivare quell'aspetto. Perché è quell'aspetto che può darci opportunità di crescita e cambiamento. Organizzare il cambiamento senza pericolosi e stupidi colpi di testa e su come superare i momenti di sconforto e sfiducia che, spesso, portano a rinunciare in partenza è un must.
Il libro
John Williams ha cambiato più di un impiego, compreso un lavoro piuttosto ben remunerato in una importante società di consulenza. E si è creato un lavoro in proprio di cui da testimonianza nel sito www.screwworkletsplay.com. In pratica fa da consulente a chi, a sua volta, ha deciso o sta decidendo di cambiare attività.
Come ogni testo di questo genere troverete anche moltissime così dette case-history, ovvero testimonianze di chi è riuscito a trasformare una passione in un vero e proprio lavoro, con consigli e link a siti utili. Storie paradigmatiche e quindi utili a diventare esempio di lavoro.
Le mie riflessioni
La quotidianità spesso ci esaspera a tal punto che cerchiamo una qualsiasi via di fuga pur di tornare a respirare!
Personalmente quando mi capita, prima di tutto faccio un bel respiro, poi chiudo gli occhi e viaggio con la fantasia raggiungendo luoghi e posti lontani, facendomi aiutare dalla lettura di un buon libro o guardando un bel documentario.
Paesi lontani, isole remote quasi irraggiungibili, terre incontaminate in cui il tempo si è letteralmente fermato.
Ma voi ce la fareste a vivere su un’isola senza wi-fi?
Me lo chiedo in questo pomeriggio che regala anticipi d’estate, dopo giorni pieni di emozioni dalle varie sfumature.
In realtà siamo continuamente chiamati a prendere delle decisioni, ad optare per una cosa o per l’altra: caffè o the a colazione? O entrambi? Cosa indosso oggi? Esco a piedi o in macchina? Che musica ascolto? Che libro leggo? Etc...
Infinite possibilità.
Infinite vie percorribili.
La parola scegliere ha derivazione latina “ex-eligere” che significa optare, preferire, decidere.
Ora, al di là delle piccole scelte quotidiane, talvolta anche automatizzate, ci sono momenti in cui talune situazioni implicano riflessioni decisamente più accurate prima di ex-eligere.
E’ in questi casi che una scelta comporta un cambiamento.
E’ questo che rende il decidere complesso.
Molto spesso il cambiamento ci terrorizza.
Ci muoviamo con sicurezza entro le nostre certezze e il pensiero di un qualche elemento nuovo ci destabilizza.
Eppure percepiamo quella insofferenza che non ci permette di più di adattarci allo stato dei fatti.
Risulta complicato prendere posizione, esporsi ad un rischio di vulnerabilità quando approcciamo al nuovo, a ciò che non ci è noto.
Ma il nostro sentire o semplicemente gli eventi, ci chiamano a prendere una via.
Ricordo da bambina che la tv trasmetteva ogni settimana un film che trattava storie di donne; il ciclo si intitolava “Donne al bivio”.
Non conoscevo il significato della parola bivio. La cercai sul dizionario (all’epoca di un pc -e soprattutto di una connessione internet-nemmeno ad averne mai sentito parlare).
Nella mia genuinità infantile non capivo perché mai piazzavano queste donne ad un incrocio e per di più senz’auto.
Ho imparato con il tempo che siamo continuamente su quell’incrocio e che le vie percorribili aumentano progressivamente; che prenderne una significa rinunciare a tutte le altre; indi per cui è importantissimo sentirsi, sintonizzarsi sulla frequenza della propria percezione per avvicinarci il più possibile alla scelta che desideriamo nel profondo.
E’ complesso perdere l’orientamento e dover ricostruire, eppure è necessario. Talvolta perché siamo noi a sentirlo, talvolta perché la vita ce lo impone.
Ma fa compagnia il pensiero che in ogni caso non si tratta di un punto di arrivo.
Che potremmo sempre modificare il percorso e prendere un’altra strada.
Siamo in continuo divenire e tutto ciò che dobbiamo fare e metterci in marcia, decidere una direzione e sfruttare il vento a nostro favore.
E se ci rendiamo conto che non ci sentiamo più… CAMBIARE…
Una volta…
Due…
Tre….
Infinite…
Non esiste regola se non il rispetto per sé.
Siamo gli artefici del nostro oggi e del nostro domani; non possiamo certo prevedere gli eventi ma possiamo decidere che tipo di persone vogliamo essere e come gestire tali eventi.
“Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare” (Seneca).